domenica 18 gennaio 2009

STRADE TORTUOSE

Nessuno di noi è rimasto indifferente davanti alle storie che hanno sconvolto la cronaca italiana negli ultimi anni, dall'omicidio del piccolo Samuele, per passare a quello di Tommy, fino ad arrivare alla giovane Meredith o all'intera famiglia di Erba nel Dicembre del 2006. Nessuno di noi ha trattenuto le lacrime davanti agli occhi celesti di Tommaso, che ne facevano trasparire in modo chiaro tutta la sua innocenza puerile. Ci siamo tutti immedesimati nei parenti delle vittime ed abbiamo provato ad immaginare, pur non riuscendoci, l'immenso dolore che hanno provato nel vedersi strappare in quel modo le persone più amate. É comprensibile lo sgomento e la rabbia che hanno agitato l'opinione pubblica nei giorni successivi a tutte queste efferate stragi, consumate con una violenza tale da far traballare qualsiasi etica giudiziaria. Da ogni parte si sono sollevate le più impensabili voci e proposte, da chi esprimeva un terribile sconforto per l'accaduto, a chi invocava con gran tono un ritorno alla pena di morte. Ancora una volta, davanti ad un problema, il bivio insito nella mente umana suggeriva due strade differenti: la più facile e diretta (e direi anche più quotata) eliminazione fisica dei presunti/reali imputati, oppure la strada più lunga e tortuosa, quella che cerca di capire, nel bene e nel male, il "perché" di un tale gesto e ne propone soluzioni diverse. Credo che una società civile non possa e non debba confondere la giustizia con la vendetta, se pur la linea di confine tra questi due concetti sia eccezionalmente sottile. Alla base del nostro sistema di giustizia vi è l'inflizione della pena come strumento di correzione e di possibile reinserimento all'interno della società di un individuo, con l'idea di fondo che nel corso della prigionia, egli possa assimilare i propri errori ed il sistema gli permetta quindi di non trovarsi più nella situazione di poterli e/o doverli ricompiere. Credo ancora, con tutto me stesso, che la libertà fisica e mentale di una persona sia tra le cose più importanti che possano esserci nella sua vita materiale e terrena, e che la privazione obbligata della stessa sia uno strumento talmente delicato da utilizzare che l'unico modo per comprenderlo affondo sia quello di capire le ragioni sociali, o di altra natura, che possano portare un individuo a perseguire un qualsiasi illecito, dal più insignificante furto al più crudele delitto. Solo evidenziando le ragioni sociali, quindi, magari aiutati dalle più svariate statistiche a noi disponibili e senza l'aiuto di grandi teorie psicologiche, riusciamo ad accettare l'idea del pentimento umano e del cambiamento come percorso di vita insito all'interno di ognuno di noi. La pena di morte, ha sempre costituito inoltre uno strumento di categorizzazione sociale, per cui i gruppi maggiormente sottoposti a questa pratica sono sempre state negli anni le minoranze etniche e le classi sociali più deboli, a conferma del fatto che la repressione va a battere sulle periferie economico-sociali dei paesi. É anche ormai indubbio che la pena di morte come strumento di paura (colpirne uno per educarne cento”, si dice), non abbia mai raccolto i frutti di un'idea ormai seminata e sepolta da anni. Tra i tanti paesi che utilizzano la pena capitale, infatti, le percentuali di omicidi (sempre il proporzione con la loro popolazione) non sono mai state tanto alte come quelle dei paesi che della pena di morte ne hanno solo un ricordo offuscato. Per chiudere e per non annoiarvi troppo con inutili dati, vorrei infine sottolineare che alla base della pena capitale vi è uno Stato che, ergendosi portatore sano di giustizia, punisce un individuo con lo stesso delitto per cui lo imputa, macchiandosi così di una vendetta che rende la pratica ancor più inumana, incivile, contraddittoria, ipocrita e crudele.

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