lunedì 6 giugno 2011

LEGGENDO METROPOLITANO: MONI OVADIA TRA POESIA E RADICI


Si chiude tra i colori pastello del tramonto cagliaritano l’ultima giornata di “Leggendo Metropolitano”, la rassegna artistica che inizia il suo viaggio nella letteratura fino ad approdare nei porti della musica e delle arti visive, in questa edizione dedicata a “Le Radici”.
La cornice del Bastione S. Croce guarda al mare e ai monti di Capoterra, e il protagonista ultimo dell’evento è Moni Ovadia, personaggio simbolo delle radici, radici che nascono e affondano non in una sola terra ma in tante, cercando acque sempre nuove e rigeneratrici.

Artista completo e impegnato, Ovadia si presenta al pubblico con due spille appuntate alla giacca, una del sindacato CGIL e una della bandiera italiana, proprio lui, nato in Bulgaria da una famiglia ebraico-sefaradita, che riconosce nell’Italia la sua prima culla.
L’incipit è di quelli che non si scordano facilmente, una lettura dell’“Itaca” di Konstantinos Kavafis, sentita e sofferta ma anche di speranza, che volge lo sguardo al futuro, prologo perfetto per affrontare il tema del viaggio, della partenza e dell’arrivo che non c’è, ma ce ne sono tanti in continua successione: «Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio, che cos’altro ti aspetti?»
La discussione parte da lontano nel filo logico, molto vicino invece quello spazio-temporale, ovvero le recenti elezioni amministrative che hanno visto a Cagliari l’elezione del giovane sindaco Massimo Zedda; c’è tutta la passione di Ovadia per i giovani, ma non manca di lanciare un monito verso coloro che vorrebbero strumentalizzare questa forza, soprattutto in chiave consumistica, per questo l’autore preferisce utilizzare il termine “alleanza tra generazioni”, un ponte in costante costruzione.

E da quì inizia il viaggio, distinguendo tra questo e la banalità del turismo che secondo egli ormai ha perso del tutto la volontà di conoscenza, ridotto alla sterile visione di quanto già appreso su internet, riducendo lo spazio della scoperta, dell’originalità, della fantasia; per questo motivo uno degli ultimi metodi per viaggiare realmente è quello di utilizzare la mente, i libri, il sapere: una nuova consapevolezza di essere al mondo.
Non ha paura di definirsi “snob” Moni Ovadia, ma lo fa con ironia e con la verità che solo una vita intensa può donare, saltando tra avvenimenti che lo hanno portato a queste conclusioni, riassunte nella definizione che dà a malincuore del Muro del Pianto a Gerusalemme, che tanto è stato privato del suo significato e mercificato da poter essere tramutato in un “sushi-bar”.
Un lungo viaggio che vede le radici muoversi dalla terra natale di Bulgaria e non possono affrontare l’argomento del genocidio ebreo durante la Seconda Guerra Mondiale, radici protette da uno stato conservatore che comunque non si tirò indietro dal minacciare la Germania nazista se solo avesse mosso un dito contro gli ebrei bulgari, il caso della Danimarca che ha ricevuto l’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” per l‘impegno in difesa degli ebrei con la simbolica vestizione della stella gialla da parte del re Cristiano X. Una tragedia quella del popolo ebreo, che non permette comunque, secondo Ovadia, le becere strumentalizzazioni degli ultimi anni, in una corsa frenetica da parte dei leader politici a definirsi “israeliani”, dimenticando che nei campi di sterminio persero la vita rom, omosessuali, atei, antifascisti, portatori di handicap, testimoni di geova, cristiani e così via: una strumentalizzazione che permette a piccoli uomini di dichiararsi amici del popolo ebreo e allo stesso tempo calpestare i diritti di milioni di palestinesi. Questo Moni Ovadia non può tollerarlo, non vuole, poiché altrimenti si darebbe nuova linfa a quelle che lui chiama “le radici del male”, e queste egli le vede ancora una volta nei ricordi di circa settant’anni fa, nelle memorie di Liliana Segre, superstite del Campo di Malchow nella Germania settentrionale, un male che prende forma nell’indifferenza di chi assisteva alle deportazioni che iniziavano presso il binario 21 della Stazione Centrale di Milano, senza una protesta, senza una lacrima, senza rabbia.

E da questo male che bisogna prendere le distanze e ricercare le “radici del bene”, che Ovadia le trova in massima espressione nella figura di Nelson Mandela che si è battuto contro l’apartheid, che ha subito ventisette anni di prigionia ma non per questo, a regime razzista abbattuto, non fu capace di porgere la mano ai suoi carcerieri, evitando con saggezza di ricadere in dinamiche passate.
L’apertura, la comprensione, l’interazione, una ricetta forse banale e scontata ma comunque esemplare, dove le radici di uno si fondono con quelle dell’altro, senza barriere, senza distinzioni, ognuno con la sue e con quelle dell’altro, radici che crescono con il viaggio appunto, con un’estenuante ricerca del nuovo, di una fiamma che faccia spalancare la bocca di stupore, con una volontà indomita di essere cittadini del mondo, poiché «se non hai l’esilio dentro, non capirai mai cosa sia la pace».
Il sole bagna i suoi raggi nel blu, si adagia in quel mare che più di tutti gli altri è solido e non liquido, mosso non da flutti ma da radici, il nostro Mediterraneo.

1 commento:

  1. fantastico...se tutti intendessimo il concetto di radici in questa maniera, come apertura, conoscenza, condivisione e non come attaccamento fanatico a un qualcosa da "difendere" a tutti i costi da presunte minacce.....forse sarebbe un grande passo avanti.

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