lunedì 16 gennaio 2012

LA FREGATURA DEI MITI: IL BUON SELVAGGIO di Gabriele Ainis


Quella del buon selvaggio in comunione con la natura, custode degli equilibri ecologici, dispensatore di saggezza antica è un mito, una bufala tardo ottocentesca elaborata dalle menti di intellettuali colonialisti determinati a trovare pretesti accettabili per le politiche espansionistiche dei propri governi. Essa era funzionale alla necessità di interpretare popolazioni lontane e tecnologicamente meno progredite - sfortunatamente titolari di ampie ricchezze - come bambini ingenui da portare per mano nel mondo moderno e, come i bambini, bisognosi di un fermo tutoraggio, affinché non potessero nuocere a sé stessi e soprattutto agli interessi coloniali.

Quello stesso mito sopravvive ancora oggi mediato dalle suggestioni new age della moderna società postindustriale tese a screditare l’eccessivo tecnicismo di cui le nostre collettività occidentali sono impregnate, la fiducia acritica nella bontà della scienza. Sulla scia del buon selvaggio, detentore di conoscenza arcana ma soprattutto ‘naturale’, categoria abusata quanto nebulosa, ecco il successo dei viaggi con uso di sciamano, della ricerca di ricette ‘naturali’ per la soluzione della complessità insondabile delle società moderne, nonché la pretesa di caricare sulle spalle di popolazioni culturalmente fragili il peso immane di una risposta a problemi cui non sono avvezze.

Un sottoprodotto del mito è la nascita di comportamenti collettivi alquanto bizzarri in molte popolazioni oggetto di viaggi pseudoculturali, quali i Dogon o i Maya, passando per le tribù del bacino amazzonico, le rimanenti frange di ciò che fu la ricchezza culturale dei nativi nordamericani e i resti della cultura aborigena australiana. Questi popoli, aderendo ai desiderata dell’occidente industrializzato, hanno elaborato un imponente corpus di miti, ricette, comportamenti, del tutto avulso dalla propria tradizione ma aderente alla necessità di far trovare ai turisti paganti esattamente ciò che cercano: il buon selvaggio, mite, saggio, dispensatore di una cultura capace di rispondere alle frustrazioni della vita snervante e apparentemente spersonalizzante del mondo occidentale.

Ciò potrebbe apparire un baratto accettabile, uno scambio in cui due parti permutano ciò di cui dispongono su un piano di parità, se non accadesse che la percezione dei popoli più fragili come appartenenti alla categoria del buon selvaggio, di per sé compiuto nel proprio rapporto con la natura, non determinasse due seri problemi.

Il primo, riguarda l’abbandono di queste popolazioni al proprio destino, talvolta - paradossalmente - con la convinzione di far loro cosa gradita, poiché non si interviene, da rozzi occidentali, nel loro profondo rapporto con la natura.

Il secondo, è l’intolleranza generata dal comportamento del preteso buon selvaggio migrante, il quale si rifiuta pervicacemente di aderire allo stereotipo dell’immaginario popolare occidentale, pretendendo, fatto incredibile, pari diritti rispetto a coloro che lo ospitano e ne sfruttano, spesso brutalmente, il lavoro, ma soprattutto rigettando con forza di aderire alla categoria del minus habens soggetto ad una ‘civilizzazione’ che riconosce, correttamente, come sfruttamento.

La costruzione di miti, quali quello del buon selvaggio, è la base necessaria per lo sviluppo del razzismo, per dar modo alla coscienza collettiva di catalogare il diverso come tale rendendolo soggetto potenzialmente derogabile dai diritti umani, in base al principio generalmente condiviso che essi possano essere tanto meno rispettati quanto più lontani dal proprio gruppo di appartenenza, sia essa distanza fisica o culturale. È così che acquistiamo tappeti prodotti dal lavoro manuale di bambini privati dell’infanzia (basta che siano nascosti alla vista), che difendiamo un sistema finanziario capace di scatenare l’aumento dei prezzi per i generi alimentari di prima necessità nelle aree più depresse del mondo (basta che nessuno mostri le immagini della fame nei telegiornali nazionali), che sgranocchiamo distrattamente le arachidi salate nei bar per stimolare la sete, senza considerare quanto la loro coltivazione sia deleteria per le fragili economie dei luoghi in cui esse hanno sostituito le colture tradizionali di sussistenza (basta che nessuno sia così importuno da ricordarcelo).

È il buon selvaggio, insomma, quello che si comporta da bravo bambino ingenuo in casa propria - alimentando il nostro bisogno di metafisica non più risolto dalle religioni tradizionali, come ben si è accorto l’ultimo pontefice della lunga serie di successori di Pietro - e fatica in quella che consideriamo casa nostra in cambio del miraggio di una potenziale civilizzazione, purché conscio della propria inferiorità di fronte al mondo ‘avanzato’ che gli consente di sopravvivere (e che altro potrebbe pretendere?).

In definitiva, uno dei miti più orrendi sui quali basare il concetto di superiorità razziale, poiché l’aggettivo – buono – sta lì a mascherare il marchio di ‘selvaggio’, da trasformare a piacere, quando convenga, in terrone, omosessuale, nero (ma sì: perché non dire direttamente negro?), Rom, pazzo, carcerato e in generale ‘diverso’. Ciascuno accettabile se, e solo se, ‘buono’, dunque pronto a riconoscersi inferiore, accettando di buon grado il ruolo subordinato di essere umano appartenente a una classe di servizio.

Proviamo a farci caso, ponendo attenzione al lessico di coloro che difendono la presenza dei migranti nel nostro paese giustificandola con la considerazione che essi svolgono, generalmente, mansioni non più gradite agli italiani, oppure facendo notare come essi, migranti, pagando le tasse, contribuiscano in modo determinante al mantenimento dell’equilibrio finanziario che consente la corresponsione delle pensioni.

Come dire: attenzione, c’è il buon selvaggio tra noi. Accettiamolo e accogliamolo perché ci fa comodo, tanto è buono…

… ma se si rifiutasse di esserlo…

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