Quella del buon selvaggio in
comunione con la natura, custode degli equilibri ecologici, dispensatore di
saggezza antica è un mito, una bufala tardo ottocentesca elaborata dalle menti
di intellettuali colonialisti determinati a trovare pretesti accettabili per le
politiche espansionistiche dei propri governi. Essa era funzionale alla
necessità di interpretare popolazioni lontane e tecnologicamente meno
progredite - sfortunatamente titolari di ampie ricchezze - come bambini ingenui
da portare per mano nel mondo moderno e, come i bambini, bisognosi di un fermo
tutoraggio, affinché non potessero nuocere a sé stessi e soprattutto agli
interessi coloniali.
Quello stesso mito sopravvive
ancora oggi mediato dalle suggestioni new age della moderna società
postindustriale tese a screditare l’eccessivo tecnicismo
di cui le nostre collettività occidentali sono impregnate, la fiducia acritica
nella bontà della scienza. Sulla scia del buon selvaggio, detentore di
conoscenza arcana ma soprattutto ‘naturale’, categoria abusata quanto nebulosa,
ecco il successo dei viaggi con uso di sciamano, della ricerca di ricette
‘naturali’ per la soluzione della complessità insondabile delle società
moderne, nonché la pretesa di caricare sulle spalle di popolazioni culturalmente
fragili il peso immane di una risposta a problemi cui non sono avvezze.
Un sottoprodotto del mito è la
nascita di comportamenti collettivi alquanto bizzarri in molte popolazioni
oggetto di viaggi pseudoculturali, quali i Dogon o i Maya, passando per le
tribù del bacino amazzonico, le rimanenti frange di ciò che fu la ricchezza culturale
dei nativi nordamericani e i resti della cultura aborigena australiana. Questi
popoli, aderendo ai desiderata dell’occidente industrializzato, hanno elaborato
un imponente corpus di miti, ricette, comportamenti, del tutto avulso dalla
propria tradizione ma aderente alla necessità di far trovare ai turisti paganti
esattamente ciò che cercano: il buon selvaggio, mite, saggio, dispensatore di
una cultura capace di rispondere alle frustrazioni della vita snervante e
apparentemente spersonalizzante del mondo occidentale.
Ciò potrebbe apparire un
baratto accettabile, uno scambio in cui due parti permutano ciò di cui
dispongono su un piano di parità, se non accadesse che la percezione dei popoli
più fragili come appartenenti alla categoria del buon selvaggio, di per sé
compiuto nel proprio rapporto con la natura, non determinasse due seri problemi.
Il primo, riguarda l’abbandono
di queste popolazioni al proprio destino, talvolta - paradossalmente - con la convinzione
di far loro cosa gradita, poiché non si interviene, da rozzi occidentali, nel
loro profondo rapporto con la natura.
Il secondo, è l’intolleranza
generata dal comportamento del preteso buon selvaggio migrante, il quale si
rifiuta pervicacemente di aderire allo stereotipo dell’immaginario popolare
occidentale, pretendendo, fatto incredibile, pari diritti rispetto a coloro che
lo ospitano e ne sfruttano, spesso brutalmente, il lavoro, ma soprattutto
rigettando con forza di aderire alla categoria del minus habens soggetto ad una
‘civilizzazione’ che riconosce, correttamente, come sfruttamento.
La costruzione di miti, quali
quello del buon selvaggio, è la base necessaria per lo sviluppo del razzismo,
per dar modo alla coscienza collettiva di catalogare il diverso come tale
rendendolo soggetto potenzialmente derogabile dai diritti umani, in base al
principio generalmente condiviso che essi possano essere tanto meno rispettati
quanto più lontani dal proprio gruppo di appartenenza, sia essa distanza fisica
o culturale. È così che acquistiamo tappeti prodotti dal lavoro manuale di
bambini privati dell’infanzia (basta che siano nascosti alla vista), che difendiamo
un sistema finanziario capace di scatenare l’aumento dei prezzi per i generi
alimentari di prima necessità nelle aree più depresse del mondo (basta che
nessuno mostri le immagini della fame nei telegiornali nazionali), che
sgranocchiamo distrattamente le arachidi salate nei bar per stimolare la sete,
senza considerare quanto la loro coltivazione sia deleteria per le fragili
economie dei luoghi in cui esse hanno sostituito le colture tradizionali di
sussistenza (basta che nessuno sia così importuno da ricordarcelo).
È il buon selvaggio, insomma,
quello che si comporta da bravo bambino ingenuo in casa propria - alimentando
il nostro bisogno di metafisica non più risolto dalle religioni tradizionali,
come ben si è accorto l’ultimo pontefice della lunga serie di successori di
Pietro - e fatica in quella che consideriamo casa nostra in cambio del miraggio
di una potenziale civilizzazione, purché conscio della propria inferiorità di
fronte al mondo ‘avanzato’ che gli consente di sopravvivere (e che altro
potrebbe pretendere?).
In definitiva, uno dei miti più
orrendi sui quali basare il concetto di superiorità razziale, poiché
l’aggettivo – buono – sta lì a mascherare il marchio di ‘selvaggio’, da
trasformare a piacere, quando convenga, in terrone, omosessuale, nero (ma sì:
perché non dire direttamente negro?), Rom, pazzo, carcerato e in generale
‘diverso’. Ciascuno accettabile se, e solo se, ‘buono’, dunque pronto a
riconoscersi inferiore, accettando di buon grado il ruolo subordinato di essere
umano appartenente a una classe di servizio.
Proviamo a farci caso, ponendo
attenzione al lessico di coloro che difendono la presenza dei migranti nel
nostro paese giustificandola con la considerazione che essi svolgono,
generalmente, mansioni non più gradite agli italiani, oppure facendo notare
come essi, migranti, pagando le tasse, contribuiscano in modo determinante al
mantenimento dell’equilibrio finanziario che consente la corresponsione delle
pensioni.
Come dire: attenzione, c’è il
buon selvaggio tra noi. Accettiamolo e accogliamolo perché ci fa comodo, tanto
è buono…
… ma se si rifiutasse di
esserlo…
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