martedì 13 marzo 2012

NON LASCIARMI


Avere un destino segnato, un nome, e una lettera dell’alfabeto come cognome. Sono questi gli elementi che accomunano, e distinguono, i figli di Heilsham, tanti cloni umani, semplici bambini come altri, che crescono nel collegio per un unico obiettivo, l’espianto dei loro organi prima che raggiungano la mezza età.


Si tratta di “Non lasciarmi” (Never let me go), film di Mark Romanek, ispirato all’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro. È un presente alternativo distopico (come quello che ricordiamo in 1984 di Orwell), quello in cui ci ritroviamo, che vede come protagonisti Kathy (Carey Mullingam), la voce narrante l’intera storia tramite un flashback, Ruth (Keira Knithley)  e Tommy (Andrew Garfield), tre ragazzi che sin da piccoli sapranno il loro ruolo nella vita. Vivono fino all’età di diciotto anni nel collegio di Heilsham, posto apparentemente perfetto, dove - tra ore di ginnastica, arte e letteratura - crescono assieme, si vivono e si innamorano venendo educati da alcuni tutori, che cercano di curare l’aspetto culturale e l’espressività che risiede in loro – come se volessero dimostrare che anche questi bambini hanno un anima – ma soprattutto che hanno l’obiettivo di mantenerli sani. In seguito, trasferiti, diverranno prima assistenti e, poi, donatori; passando il tempo chiedendosi dopo quanti cicli moriranno.


Quella dei tre protagonisti è una storia di amore, amicizia e crescita, mentre sperano, quando il momento delle donazioni si avvicina, in un rinvio. Sembra quasi che elemosino pezzi di vita, ma a causa della loro forma mentis non cercheranno mai di scappare ma osserveranno per tutto il tempo un mondo verso il quale sono curiosi e penseranno alla loro fine quasi come ad un qualcosa che si meritano; anche se dentro di loro una forza estranea li soffoca. Emblematiche, in questo senso, sono le ripetitive crisi di Tommy, che inizialmente in maniera inconsapevole, e in seguito, sfinito dall’idea di quel destino segnato, non può evitare di sfogare il dolore che porta dentro come un mostro, urlando al cielo.


Durante tutta la durata del film ci troviamo davanti a più di un interrogativo che anche in seguito non si riesce a dimenticare. Prima fra tutte è la domanda “Cos’è che ci rende umani?”. I bambini di Heilsham vengono trattati come prodotti di una società il cui unico interesse è quello di sfruttarli per salvare altre vite; vite, forse, più importanti? E così, ad ogni ciclo concluso, i cloni umani, perdono un pezzo della loro storia, un pezzo di speranza, quella speranza che forse è stata soffocata dall’accettazione del loro destino.


Il film prosegue, per tutta la sua durata in maniera strettamente angosciante, così come sono angoscianti i rapporti insani tra i tre protagonisti. La gelosia di Ruth, l’incapacità di Tommy di relazionarsi con entrambe le ragazze, e la speranza che esista un rinvio della morte causata dal suo non riuscire a capire, fino al midollo, ciò che gli è stato fatto. Decisamente rappresentativi di ogni stato d’animo che sembra quasi di vivere in prima persona, sono le musiche di Rachel Portman, e la fotografia dai colori autunnali ma allo stesso tempo fortemente soavi, di Adam Kimmel.


Tanti interrogativi vagano nella nostra mente alla fine del film. È giusto sacrificare delle vite per salvarne altre? Quando è etico il progresso scientifico? Esiste davvero un’anima?


Romanek riesce pienamente a farci immedesimare nei protagonisti, fino a farci sentire nostra quella condizione, fino a farci rendere conto di quanto, anche per noi, il tempo per vivere non basti mai.

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