domenica 9 ottobre 2011

ESIGERE LA VERITÀ PER VITTORIO

Il 3 ottobre scorso si è tenuta a Gaza la terza udienza del processo per il rapimento e l'uccisione di Vittorio Arrigoni. L'attivista per i diritti umani dell'International Solidarity Movement, collaboratore de Il manifesto e uno dei pochi testimoni stranieri presenti nella Striscia di Gaza durante l'operazione israeliana "Piombo Fuso", era stato rapito la sera dello scorso 14 aprile da un gruppo fondamentalista (presunto) salafita, per poi essere ritrovato nelle prime ore del 15 aprile privo di vita.

Da quanto dichiarato in via confidenziale al quotidiano Il manifesto dall'avvocato di uno degli imputati nel processo, sembrerebbe che secondo le indagini svolte dalla security e dalla polizia del posto, intento del gruppo fosse quello di rapire un occidentale "eccellente" - accusato, tra l'altro, di condurre uno stile di vita troppo "occidentale" - nel duplice tentativo sia di affermarsi come gruppo armato nelle lotte di potere fra clan nella Striscia di Gaza, sia di ottenere la liberazione dello sceicco Abdel-Walid al-Maqdisi, arrestato da Hamas per atti sovversivi. Non sarebbe stata intenzione dei sequestratori uccidere Vittorio: la situazione sarebbe precipitata durante il tentativo di fuga per evitare la cattura. Due giorni dopo il ritrovamento del corpo di Vittorio, due componenti del gruppo di rapitori, il giordano Abdel Rahman Breizat e il palestinese Bilal al Omari, considerati i "capi" della cellula salafita, sono poi rimasti uccisi durante un blitz effettuato nel loro rifugio dalle forze di Hamas. L'impressione che si è avuta fin da subito è che la difesa dei quattro imputati nel processo tenterà di addossare tutte le colpe a Breizat e a al Omari, che ormai non possono più parlare. Appare incredibile, tuttavia, che questi giovani palestinesi, tutti poco più che ventenni, abbiano potuto agire da soli. Anche se non è stata riscontrata dalle indagini, non è da escludere una "mente" esterna al rapimento. Come afferma la signora Egidia Beretta, mamma di Vittorio Arrigoni in un'intervista a InfoPal Agenzia Stampa, "di solito uno scambio negoziale se lo possono permettere realtà con un certo potere, invece questi sembravano degli sprovveduti". La figura del giordano Breizat, in particolare, non è per niente chiara: "Perché attraversò il tunnel appositamente per andare a uccidere mio figlio?", si chiede la signora Egidia. Domanda che, almeno finora, non ha trovato risposta. È un dato di fatto che il governo di Hamas non ha mantenuto la promessa di rendere pubblici gli atti delle indagini e i verbali degli interrogatori. Non ha consegnato alla famiglia Arrigoni il fascicolo con il risultato delle indagini svolte nei mesi precedenti al processo. Secondo quanto scrive Michele Giorgio de Il manifesto, i pochi effetti personali di Vittorio sembrano spariti.

Inoltre, non si capisce perché trattenere al valico di Rafah - impedendo così di assistere al processo, non ritenendo sufficiente la documentazione presentata al terminal - durante la prima udienza l'avvocato della famiglia Arrigoni e ancor più durante la seconda due attivisti della Freedom Flotilla, ossia chi si batte contro l'assedio cui Gaza è sottoposta da anni ormai.

Durante la prima udienza del processo, dello scorso 8 settembre, è stata rifiutata la costituzione di parte civile - in quanto non prevista nel procedimento penale militare - dell'avvocato Eyal al-Alami del Centro per i Diritti Umani di Gaza, che aveva ricevuto il patrocinio della famiglia di Vittorio. Il processo si sta tenendo in un tribunale militare, quello di Shati Mashtal (Gaza City), poiché tutti gli imputati sono di fatto militari appartenenti alle forze di Hamas. Non può che apparire strano che degli avvocati preparati, come quelli scelti dalla famiglia di Vittorio, non fossero a conoscenza del fatto che in un procedimento penale militare non siano ammesse le parti terze (ossia non è ammessa la costituzione di parte civile): una norma introdotta recentemente, quasi ad hoc verrebbe da pensare.

Della prima udienza resterà impressa, tuttavia, soprattutto l'immagine dei quattro imputati che "ridevano, troppo sicuri per lo schifo che hanno fatto", come ci ha testimoniato Meri Calvelli, cooperante a Gaza, presente al processo durante tutte le udienze assieme a Michele Giorgio, giornalista de Il manifesto.

La seconda udienza, del 22 settembre, si è contraddistinta dalla ritrattazione delle proprie confessioni da parte di due dei quattro imputati, che hanno dichiarato che le confessioni sarebbero state loro estorte sotto "forti pressioni" e "maltrattamenti". Circostanze negate dall'agente presente agli interrogatori, potrebbe trattarsi di una strategia della difesa per dilatare i tempi del processo. Non è passata inosservata, inoltre, la del tutto ingiustificata assenza del medico legale che ha eseguito l'autopsia sul corpo di Vittorio. Il medico legale è stato invece presente e sentito dalla Corte durante la terza udienza del processo, tenutasi lo scorso 3 ottobre. Si è appreso che uno dei quattro imputati, colui che aveva offerto rifugio ai due "capi" in fuga, è stato scarcerato, anche se ancora sotto processo e con l'obbligo di presentarsi alle udienze. Da rilevare che in più occasioni si sono riscontrati errori di verbalizzazione, mancanze particolarmente gravi in un processo per omicidio.

Si può prevedere sin da ora un verdetto di colpevolezza, "in quanto non appare realistico che la Corte smentisca le indagini segrete della security e della polizia. Equivarrebbe a smentire le autorità". Questo è quanto scrive su Il manifesto - e poi in un articolo più ampio per PeaceReporter - Gilberto Pagani, avvocato della famiglia Arrigoni. In caso di richiesta di pena di morte, fortemente probabile, la famiglia Arrigoni per legge avrebbe la possibilità di opporsi e di chiedere una pena sostitutiva. È ovvio che la famiglia Arrigoni si opporrà alla pena di morte e a qualsiasi forma di violenza.

A quanto scrive Gilberto Pagani, "nulla viene detto sulle indagini che hanno portato all'individuazione degli imputati, come si sia arrivati alla casa dove gli accusati si erano rifugiati, come si sia svolta l'azione della polizia, quale sia stato il ruolo dei due presunti assassini uccisi durante l'operazione. E soprattutto: perché proprio Vittorio è stato rapito e perché è stato ucciso. Queste domande non avranno spazio nel processo". Se l'avvocato Pagani, assieme ai colleghi del Centro per i Diritti Umani di Gaza, avesse potuto seguire attivamente il processo attraverso la costituzione di parte civile, avrebbe potuto smontare le falle dell'inchiesta. Purtroppo, però, non è possibile.

A Gaza, come d'altronde qui in Italia, poco è l'interesse dei mezzi d'informazione sull'andamento del processo. Come ci ha ricordato pochi giorni fa la signora Egidia Beretta in una sua lettera, letta in occasione della marcia per la pace ad Assisi, "Vittorio non ha mai esitato di fronte all'ingiustizia a porsi come scudo, a dividere pane e pericoli con i pescatori e i contadini, ad accompagnare i paramedici sulle ambulanze sotto il tiro dei cecchini, in quella prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza, perché sentiva fortissimo questo bisogno e mai l'avrebbe tradito e ignorato, pur avendo anche messo in conto di poter dare la vita, ben sapendo che della pace, come spesso ci dicevamo nei nostri discorsi, la giustizia è madre e sorella". Anche per questo, come ha affermato Alessandra Capone, attivista della "Rete Romana per la Palestina" e grande amica di Vittorio, "è compito di tutti noi quello di fare pressioni sul governo italiano, anche se non ha relazioni diplomatiche con Gaza in quanto non riconosce l'autorità di Hamas. Non dobbiamo lasciare nulla di intentato e dobbiamo chiedere a gran voce che ci vengano date delle risposte. Dobbiamo farlo subito, per amore di Vittorio e della verità".

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