lunedì 2 luglio 2012

LAVORATORI IN RETE



[Pubblicato sul Manifesto Sardo del 1 luglio 2012. http://www.manifestosardo.org/]

A partire dalla Gran Bretagna di Margaret Thatcher e dagli Stati Uniti di Ronald Reagan, le politiche messe in atto negli anni Ottanta, con la caduta del muro di Berlino e la fine del blocco socialista, implicarono un cambio di rotta mondiale che porta i suoi riverberi fino ad oggi, trent’anni dopo. Il credo della globalizzazione neoliberista ha, da quel momento in poi, investito come un virus – oltre gli organismi direttivi dei grandi gruppi economici – anche gran parte delle forze progressiste, le quali si son presto trovate a dover scegliere per i finanziamenti privati delle grandi lobby per sostenere così costi della politica diventati sempre più onerosi. Sotto la minaccia sempre costante della delocalizzazione, i grandi attori dell’economia mondiale hanno spinto affinché vi potesse essere una progressiva liberalizzazione dei mercati, la deregolamentazione e la privatizzazione di molte attività economiche precedentemente gestite dallo Stato, nonché una minima regolazione del mercato del lavoro ed un welfare state più esile e flessibile. Come è stato possibile però questo passaggio?

Attraverso il “nuovo paradigma tecnologico” delle TIC (tecnologie di informazione e comunicazione), di cui ci parla Turriòn, il tempo vive una vera e propria implosione, restringendosi alla “misura zero” dell’istante nei messaggi elettronici. Questa nuova velocità produce però anche una nuova polarizzazione: non tutti gli individui godono allo stesso modo di questa mobilità e, invece che rendere omogenea la condizione umana, l’annullamento tecnologico delle distanze spazio-temporali tende a polarizzarla. “L’economia”, cioè il capitale ed il denaro come risorsa, si muove dunque più rapidamente di qualsiasi altra entità politica (come sempre, territoriale) che volesse contenerne il moto e mutarne la direzione, liberando il capitalismo dai vincoli socio-statali democratici in cui è sempre stato ingabbiato. In un mondo nel quale il capitale non ha fissa dimora e i flussi finanziari sono largamente fuori controllo dei governi, molte delle leve di politica economica non funzionano più. Assistiamo ad una separazione netta tra la sfera economica e quella politica: più la prima viene sottratta dagli interventi regolatori della seconda, più si ha una perdita di potere politico ed una crisi della democrazia. Il populismo pare essere in questi tempi piuttosto potente ed inquietante poiché lo si saluta appunto come una terapia d’urto necessaria a scuotere la democrazia dal suo letargo e, per quanto si denuncia la demagogia come un pericolo, la sua forza è direttamente proporzionale alla mancanza di risposte da parte della politica stabilita alle domande di un mondo radicalmente mutato.

La sociologia contemporanea ha avuto il merito, prima di tutte le altre discipline, di portare alla luce e teorizzare ampiamente il depauperamento degli Stati-nazione avvenuto sotto i colpi incessanti del globalismo. Dalle pagine dei loro innumerevoli trattati, inoltre, i maggiori sociologi viventi hanno proposto alcune soluzioni che sono – seppur con alcune discrepanze – piuttosto simili tra loro. In una parola: la necessità di costituire una governance globale del tutto assente in questo momento nonostante la presenza di alcune istituzioni sovranazionali a cui tutti gli Stati sovrani hanno ceduto, volontariamente, parte della loro autorità. È così per Ulrich Beck, europeista convinto, che parla appunto di “società cosmopolita” e dell’idea di “rischio” globale come stimolo per i governi ad un dialogo e ad una concertazione che sia diversa dalle ormai impraticabili relazioni internazionali. È così anche per Zygmunt Bauman, che dalle pagine del noto quotidiano La Repubblica, scrive: «non abbiamo ancora l’equivalente, l’omologo globale delle istituzioni inventate, progettate e poste in essere dai nostri nonni e bisnonni a livello territoriale di Stato-nazione, per suggellare il matrimonio tra potere e politica: istituzioni nate per servire la coesione e il coordinamento di opinioni e interessi diffusi e garantire una loro adeguata rappresentanza, riflessa in una legislazione vincolante per tutti». È così, infine, anche per Anthony Giddens che, interrogato da Bruno Manfellotto (direttore dell’Espresso) e Mario Pirani (editorialista di Repubblica), non esita a ribadire: «manca una “governance” globale, un governo capace di coordinare e guidare una comunità internazionale che si muove come un tutt’uno. In questo vuoto si sono inseriti i mercati finanziari, che non rispondono tuttavia alla volontà di alcun elettore, ma solo alla logica dei profitti».

Se è vero, dunque, quanto teorizzato nelle righe precedenti, una via nazionale di uscita da questa impasse appare del tutto illusoria. La questione che si pone è, allora, se la creazione in toto di un’istituzione politica che sia – questa volta – davvero democratica, possa rappresentare una nuova ricongiunzione tra gli interessi dei cittadini (europei, non solo tedeschi) con il capitalismo globalizzato. Il mio scetticismo riguardo questa prospettiva nasce per alcune caratteristiche che sono intrinseche al sistema democratico stesso, come sopra riportato: i costi per sostenere campagne elettorali diventate, per utilizzare le parole di Manuel Castells, “iper-mediatiche”, sono tali da non consentire alla politica – sia questa nazionale, europea o globale – di liberarsi dalla ineluttabilità del capitale. Una parte del funzionamento di questo apparato è descritta nel saggio “Manufacturing Consent: the Political Economy of the Mass Media” del teorico della comunicazione Noam Chomsky. Egli tenta di fornire un modello di funzionamento della propaganda nei mass media in termini di cause economiche strutturali: la teoria vede i media come delle imprese che vendono un prodotto (lettori piuttosto che notizie) ad altre imprese (gli inserzionisti pubblicitari), i quali hanno un forte interesse affinché le informazioni che vanno in conflitto con i loro interessi vengano distorte. L’impressione, dunque, è che questo potente intreccio tra struttura lobbistica e proselitismo costituisca una variabile poco considerata ma che risulta essere, dal mio punto di vista, assolutamente centrale nel considerare la democrazia rappresentativa, indipendentemente dal livello (regionale, nazionale, sovranazionale) in cui essa si esplica.

Suggerire una soluzione efficace a questo stallo è, senza dubbio alcuno, un suicidio intellettuale. La sensazione che ho è, però, che la vicenda delle elezioni greche sia solo l’ultimo dei sintomi: questo ricatto globale non può che trovare negli organi rappresentativi del mercato del lavoro uno spiraglio che superi, questa volta, le frontiere nazionali. La stessa via è suggerita nel libro “Globalizzazione dal basso. Economia mondiale e movimenti sociali” di Mario Pianta, il quale – tra le altre cose – ci ricorda: «Un nodo centrale nella possibilità di sviluppare pressioni sulle scelte aziendali è la costruzione di strutture sindacali a livello delle imprese multinazionali; in Europa la creazione di oltre un centinaio di comitati aziendali europei è un punto di partenza significativo per una contrattazione con le imprese multinazionali. Inoltre non va dimenticata la crescita del sindacato nei paesi di nuova industrializzazione, dalla Turchia alla Corea, dal Brasile all’India, che riflette l’allargamento della classe operaia di quei paesi. Se è stato possibile costruire reti globali di ambientalisti, contadini poveri e consumatori, perché deve essere impossibile rivitalizzare le strutture sindacali internazionali esistenti o creare nuove reti di base tra lavoratori della meccanica e delle comunicazioni?».

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